Talmud Babilonese – Trattato Ta‘anìt

50,00

A cura di: M. Ascoli
Editore: Giuntina
Anno di pubblicazione: 2018
Numero pagine: 384 p.
Dimensioni: 22×30,5cm

COD: 9788880577485 Categoria:

Descrizione

Il digiuno, come forma rituale ebraica, esprime la contrizione di fronte a una disgrazia che ha colpito o minaccia di colpire la collettività o un singolo. È uno strumento di teshuvà, di pentimento, di ritorno al Signore. Con ciò, l’uomo sancisce che quanto avviene non è casuale, bensì opera di Dio e conseguenza delle nostre azioni.
Il digiuno è la pratica che i Maestri hanno stabilito per adempiere il comandamento biblico di invocare il Signore qualora vi sia una minaccia incombente o quando si sia già stati colpiti. Il digiuno rimarrebbe tuttavia privo di significato se non fosse accompagnato dalla preghiera e dall’analisi scrupolosa del proprio operato, tutte componenti essenziali del processo di teshuvà. L’istituzione del digiuno è quindi strettamente correlata con eventi che possono accadere o non accadere: siccità, carestie, pestilenze, guerre. Ai tempi della Mishnà e del Talmud, la minaccia maggiore e più frequente era quella della mancanza di pioggia. Pertanto il trattato affronta soprattutto questo argomento per poi estendere la disamina agli altri casi.
Vengono poi trattate tematiche legate ai digiuni fissi, collegati a eventi storici e alla memoria collettiva, nei quali si aggiunge anche la componente del lutto. In particolare, i Maestri discutono sui digiuni relativi alla distruzione del Bet haMiqdàsh (il Tempio di Gerusalemme): il digiuno del 9 del mese di Av, che commemora la distruzione del Secondo Tempio, e il digiuno di Ghedalià, in ricordo dell’assassinio del governatore di Gerusalemme dopo la distruzione del Primo Tempio. A questi si aggiunge il giorno di Kippur per il quale i Maestri hanno deciso l’obbligo di digiunare deducendolo sulla base del testo biblico Impoverirete le vostre persone (Lv 16,29).
Brani di Aggadà, cioè di racconto e insegnamenti morali, non strettamente normativi, sono una caratteristica dell’intero Talmud. Nel presente trattato ve ne è una particolare abbondanza, soprattutto per suffragare l’idea che i premi e le disgrazie devono essere intesi come ricompense e punizioni, conseguenti alle azioni dell’uomo. Alcuni racconti, soprattutto quelli del terzo capitolo, sono sorprendenti per l’audacia delle loro narrazioni, sfociando spesso nel miracoloso; e la lettura non rimane scevra da un senso di inquietudine di fronte a quella che sembra un’eccessiva severità verso i protagonisti dei miracoli e i loro familiari.
Si può guardare al trattato di Ta‘anìt con nostalgia per la perduta immediatezza nel rapporto con il divino: la correlazione così netta e diretta fra meriti e pioggia ovvero colpe e siccità ci sembra oggi appartenere a una dimensione lontana, e anche la dipendenza così forte dalla pioggia per la sopravvivenza, almeno per una parte della popolazione mondiale, appare storia passata. Le previsioni del tempo consentono di sapere in anticipo l’arrivo o meno di pioggia con relativa sicurezza. Eppure, l’esito di una stagione più o meno piovosa o il verificarsi o meno di cataclismi riguardano ancora l’umanità tutta. L’immediatezza è forse venuta meno ma non l’incidenza dei fenomeni naturali che invece è rimasta immutata e in cui gli uomini hanno un ruolo di fondamentale importanza. In questo senso il trattato di Ta‘anìt sembra richiamarci a nuove responsabilità e consapevolezza rispetto alla cura della terra.
Il trattato di Ta‘anìt contiene quattro capitoli, per ognuno dei quali si può identificare un tema principale: le piogge e i loro tempi; quando stabilire digiuni nel caso non ne cadano o non ne cadano abbastanza, o comunque non nei momenti in cui serve (1); le preghiere e gli usi propri dei giorni di digiuno (2); le circostanze in cui si fa digiuno (3); i digiuni fissi in ricordo di eventi specifici (4).
Il trattato si conclude con un’immagine bucolica, la descrizione festosa dei giorni più felici dell’anno: il 15 di Av e Yom Kippur, occasioni nelle quali le ragazze, vestite a festa, uscivano nelle vigne e cercavano di conquistare i loro futuri mariti.

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